Africa – Terra Rossa

16 agosto 2017

Quanto decidi di fare un viaggio in Africa ti ritrovi ad ascoltare i consigli di tutti: “Devi essere pronta, forte…l’Africa non è semplice” e allora il giorno prima della parte ti dici: “Si sono pronta, sono forte!”
…Poi arrivi qui e ti accorgi che non è vero niente… non si è mai abbastanza pronti per questa esperienza…
Questa è la mia prima volta in terra rossa… Si TERRA ROSSA… perché è la prima cosa che mi è venuta in mente quando sono arrivata qui ed è difficile riuscire a descrivere le emozioni che si provano quando ti confronti con un mondo così diverso dal nostro!

La prima cosa che mi ha colpito sono stati gli sguardi dei bambini e i loro sorrisi che ti donano in modo completamente gratuito, ti chiedono affetto…solo quello… niente di più, ma poi ti assale la rabbia nel vedere un bambino mal nutrito o sporco da far paura e ti senti impotente e inutile, e contemporaneamente ripensi anche alla gioia della messa domenicale piena di canti e balli e ti accorgi che nel nostro mondo non c’è così tanta felicità o fratellanza. Un gioco non è solo di un bambino ma di tutti e per renderli felici basta anche solo un pantaloncino, una maglietta e un paio di calzettoni! Questo modo di vivere così semplice e povero non credo esista più, se non qui, e se non si vede non si crede. 20934977_877870975727335_5587370286373726134_o
Queste persone hanno dei doni grandissimi come l’innocenza, la spontaneità, la fede infinita che noi che ci consideriamo persone “normali” non abbiamo. Noi “normali” quante volte ci tratteniamo dal dimostrare affetto ai nostri cari? Quante volte non ci accontentiamo di quello che abbiamo e pretendiamo sempre altro? Quante volte siamo cattivi senza motivo? La risposta è sempre la stessa per tutte le domande: SEMPRE.

Giuliana, la nostra accompagnatrice qualche giorno fa mi ha chiesto cosa dirò quando tornerò. Beh, non lo so ancora ma l’unica cosa certa è che seguirò il consiglio di un insegnante della Great Valley School che oggi, mentre mi raccontava la storia di una bambina che non sorrideva mai, ha concluso dicendomi: DO NOT FORGET ABOUT THEM.
No, non mi dimenticherò mai di loro…credo sia impossibile perché queste persone mi hanno pulito il cuore, hanno saputo abbattere barriere e farmi superare dei limiti senza che io chiedessi nulla… in modo naturale.
E non finirò mai di ringraziare questa terra speciale.
Al mio ritorno cercherò di mettere in pratica tutto ciò che mi ha insegnato. Vi farò sapere se ci riuscirò.

 

Ps: questa è solo una parte della mia esperienza, il resto lo scriverò in Italia… voglio condividere ogni cosa perché l’Africa mi ha insegnato anche che CONDIVIDERE CON AMORE ti rende una persona felice!

Gilda – Bucciano

Contatto o movimento? Contatto e movimento.

10 agosto 2017

Sono tornati da pochi giorni i giovani del primo gruppo (Piacenza e Fabriano). Adesso è la volta di Mede e Bucciano, in Uganda da dieci giorni. Si sa, per ognuno l’incontro con la terra africana è diverso, ecco allora le parole di Luca, le sue riflessioni e la sua bella e sana confusione. Buona lettura!

 

È ancora tutto un po’ confuso e disordinato nella mia testa. Chi mi sente da casa per telefono può percepire il mio stato d’animo come semplice tristezza, ma non lo è. Forse è solo rassegnazione al fatto di sapere che non sono in grado di spiegare ciò che sto vivendo (e chissà per quanto tempo sarà ancora così, anche una volta tornato a casa). Ma state tranquilli: sono felice, davvero.

Come ho appena scritto, è ancora tutto confuso e disordinato; allora meglio scrivere, sicuramente mi aiuterà.

La prima cosa che mi ha scombussolato una volta arrivato qui è stato il diverso modo di vivere il tempo e lo spazio. Se dovessi raccontarli in una sola parola direi che il tempo qui è pazienza e che lo spazio è aperto.

Pazienza di chi è nato e vive qui, di chi ha bisogno, di chi è arrivato e cerca di portare avanti un progetto. Pazienza di chi sta vedendo uno sviluppo, di chi si fa aiutare, di chi porta avanti un progetto in mezzo a mille difficoltà. Spazio aperto della savana, delle porte aperte dei villaggi e delle case, della gente, anche lei aperta. Di chi si apre uno spiraglio per passare o di chi si apre letteralmente a te.

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E se ci penso bene c’è una frase che riassume un po’ tutto questo: ce la disse Daniele, il nostro accompagnatore, la prima mattina a Kampala, cercando di spiegare il traffico umano della città, dove il marciapiedi si confonde con la strada, dove i semafori e le precedenze sono filosofie, dove può capitare che sia più il tempo in cui si sta in coda di quello in cui ci si muove. La frase è “Il contatto fa parte del movimento” ed era in mezzo ad un discorso molto pratico: serviva a spiegarci di non preoccuparci se la gente ci sarebbe venuta addosso, si tratta di una situazione normale in cui non è nemmeno necessario chiedere scusa. Ma questa frase mi ha fatto riflettere: non è che anche a casa, nella vita di tutti i giorni, il contatto fa parte del movimento? Sono arrivato a rispondermi di sì, che è proprio così e che tante, troppe volte, vado semplicemente a sbattere senza preoccuparmi di ciò che sto incontrando, senza tenere conto del contatto.

Probabilmente qui è più semplice, sono qui per guardare, conoscere, imparare: chissà però che insieme a volti ed esperienze io non porti anche a casa un diverso modo di vivere.

Siamo qui da dieci giorni e sono riuscito ad elaborare solo questo: ogni ora ci sono tanti stimoli di riflessione, ogni giorno ci sono così tanti incontri che è difficile scegliere qualcosa di cui parlare senza ridursi a fare un elenco. E ciò che sto vivendo non è un elenco. Non è un semplice spazio nella mia vita. Per questo lo terrò ancora un po’ confuso, perciò ne parlerò con calma una volta arrivato a casa; mi prenderò del tempo e proverò a trovare un contatto. Perché ci sia movimento e non solo un portare avanti la vita.

Ora ho fatto più confusione di prima. Ci sarà tempo di darle un ordine; il senso ce l’ha già.

Luca – Mede

Alakara nooi

5 agosto 2017

La prima volta che ho sentito parlare di Africa ero piccolina, avrò avuto poco più di dieci anni quando, non ricordo precisamente in quale occasione, una persona per me molto speciale raccontò il suo viaggio in Uganda. Ricordo di esserne rimasta subito affascinata, attratta, incuriosita. La mia avventura ad Africa Mission è iniziata invece circa tre anni fa, complice un professore di storia dell’arte, l’unico che sia riuscito, durante il mio percorso scolastico, ad insegnarmi davvero qualcosa. I primi passi mossi nella Sede di Piacenza non sono mai stati quelli di una persona disorientata perché immediatamente mi sono sentita accolta come in una piccola famiglia. I primi passi mossi in Uganda hanno avuto lo stesso sapore.

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Se mi chiedessero di descrivere queste settimane in poche parole sarebbe difficile; le esperienze da raccontare sono troppe, le emozioni vissute anche. Ogni giorno è stato diverso, unico, ricco e intenso. Abbiamo incontrato tantissime diverse persone, incontrato le loro storie e i loro sguardi; abbiamo incontrato le loro mani, la loro voce. Per strada ci siamo sentiti spesso chiamare “muzungu”, termine con cui designano l’uomo bianco; abbiamo appurato che i bambini hanno una particolare attrazione nei nostri confronti, ci guardano come se fossimo delle creature strane e rare ma basta dimostrare fiducia e subito ti prendono la mano dando inizio ad una serie di strane dinamiche e a giochi che potrebbero durare anni. In questi giorni alcune occasioni ci sono state utili per comprendere cosa significhi essere stranieri, diversi, inaccettati. Al contempo, la maggior parte delle volte abbiamo conosciuto la gioia di sentirsi i benvenuti, sentirsi accolti, accompagnati.

Abbiamo conosciuto la fede attraverso i balli e i canti dei ragazzi della parrocchia di Moroto, attraverso le testimonianze e il lavoro dei Missionari del Povero a Kampala o delle suore che a Moroto si occupano di bambini orfani. Abbiamo ascoltato la storia di Bosco, quella della sua infanzia difficile e della sua forza nel prendere in mano la propria vita; oggi è preside di una scuola che accoglie circa settecento alunni in uno dei tanti slum di Kampala. Ci siamo lasciati affascinare dalla confusione della capitale, dall’imponente grandezza del Nilo e dalla vastità della Savana. Il nostro naso ha captato mille odori diversi, la nostra lingua assaporato tanti nuovi cibi, i nostri occhi non hanno mai smesso di osservare, le nostre orecchie e il nostro cuore di ascoltare. Ci siamo sentiti ringraziare tante volte, ma mi sono resa conto che l’unico grazie va a voi, grandi, piccoli, anziani.

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Grazie lo dico a voi perché mi avete accolta, perché con i vostri sorrisi mi avete sempre fatto sentire a casa. Perché insieme siamo riusciti a rendere le differenze, non un ostacolo, ma un filo conduttore invisibile che mi legherà a voi per sempre. Grazie perché mi avete insegnato a vedere la bellezza nelle piccole cose, mi avete insegnato a parlare con uno sguardo e a osservare ciò che mi circonda con gli occhi del cuore. Mi avete insegnato a stupirmi, ad entusiasmarmi e a gioire. Grazie perché siete riusciti ad abbattere le mie barriere e a farmi capire che è normale avere dei limiti ma con impegno e volontà si può provare a superarli. Grazie soprattutto perché mi avete aiutato a capire cosa significa amare.

Ho ritrovato amore in un abbraccio, quello con Lydia, che prima di salutarmi mi ha detto “life is hard Sabrina, but is beautiful”. L’ho ritrovato guardando una mamma accudire il proprio figlio oppure accarezzando un bambino e stringendo la sua piccola manina. Nei più piccoli e concreti gesti. L’amore l’ho ritrovato l’altro giorno a Kobulin, quando i parenti dei ragazzi hanno aspettato sotto la pioggia e a tratti sotto il sole cocente, seduti sotto un albero, la consegna dei diplomi dei propri cari. L’ho ritrovato lo stesso giorno nelle persone che durante la sfilata nella cittadina esultavano insieme a quei ragazzi come se fossero i loro figli, i loro fratelli o le loro sorelle. L’amore quello più puro e sincero, quello semplice.

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Grazie di nuovo perché mi avete insegnato cosa significa non perdere mai la speranza, nonostante le difficoltà e gli ostacoli apparentemente insormontabili. Grazie perché mi avete insegnato. Porterò con me ognuno di voi. Alakara nooi, thank you, grazie.

Sabrina – Piacenza

Un pretesto per tornare

1 agosto 2017

Studiando per diventare maestra (materna ed elementari) questi giorni durante gli spostamenti nel matatu (piccolo pulmino locale) ero molto attenta a cercare le scuole, curiosa di vedere come fossero dentro e più in generale come funzionassero. Finalmente alla “Great Valley School” ho avuto l’opportunità di vedere e conoscere: sono state due mattinate meravigliose, mi hanno confermato che quello che voglio fare da grande è stare in mezzo ai bambini.

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Venivamo da un giorno un po’ difficile e solo vedere quel mondo pieno di colori mi ha rimesso il sorriso. La bellissima storia di Bosco, il fondatore della scuola, che abbiamo ascoltato prima di fare il giro dell’edificio, mi ha ancora di più spinto a credere che noi siamo gli artefici dei nostri destini e che anche i sogni che a volte ci sembrano delle utopie possono diventare realtà se ci rimbocchiamo le maniche e riceviamo la giusta dose di fortuna o Provvidenza (punti di vista).

Una scena che non mi dimenticherò più è quando abbiamo oltrepassato il cancello: uno sciame di bimbi dalla divisa arancione con un sorriso a 36 denti ci è corso incontro curiosissimo di conoscere noi muzungu. L’accoglienza nelle classi è stata spettacolare: urla, applausi, canzoncine; probabilmente non mi sono mai sentita così attesa e apprezzata. È stato bellissimo condividere dei momenti di gioco in cui si annullavano completamente tutte le barriere, in particolare la nostra etichetta da “turisti”, infatti eravamo tutti allo stesso livello lì per divertirci e stare insieme.

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Ci sono due momenti in particolare che ho impressi negli occhi. Il primo è lo spettacolo finale in cui alcuni ragazzi della scuola hanno ballato per noi: oltre al fatto che erano bravissimi, ad un certo punto ci hanno chiamato per ballare con loro e ci hanno seguito anche tutti gli altri ragazzi della scuola e sul cemento del cortile non c’era più neanche uno spazietto libero. Il secondo è quando ho dovuto salutare un bambino di nome John con cui ho instaurato subito un legame: il primo giorno infatti, nonostante fosse molto timido e quindi non abbiamo parlato molto, mentre camminavamo per lo slum mi ha tenuta sempre per mano senza lasciarmi mai, il suo sostegno silenzioso per me è stato fondamentale. Anche il secondo giorno mi è stato sempre accanto e quando eravamo lontani con lo sguardo era sempre su me. Proprio quello sguardo (accompagnato da un’espressione molto più triste) che ha assunto quando ci siamo dovuti salutare non riesco a cancellare dalla mente.

Tutta la malinconica è andata via quando ho capito che non riuscivo ad accettare il fatto che non lo potessi più rivedere, decidendo che questo sarebbe stato il primo di una lista di pretesti per tornare.

Chiara – Fabriano

Colorita.

25 luglio 2017

Flavia è una giovane volontaria che dopo diversi mesi di servizio in Italia, è partita qualche settimana prima del Vieni e Vedi per poi ricongiungersi al gruppo una volta arrivato in Uganda. Ecco allora il suo concentrato di emozioni. Tutto da leggere.

Colorita.

Se dovessi scegliere una parola per descrivere la mia prima boccata d’Africa, sarebbe questa. Piena di colori, terra rossa, cielo azzurro, anche il pavimento della sede ha quel colore. Fantasie arancio, gialle e verdi incastrate sui vestiti della gente, nera.

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Ti senti un po’ vuoto tu, bianco, pulito, noioso, quando atterri in questa terra piena.
Uno pensa di andare in Africa e portare qualcosa di fondamentale, come una sorta di regalo, un valore aggiunto. Che scemenza.

Fai dieci ore di volo, qualcuna di macchina e quando scendi l’unica cosa che puoi fare è startene zitto, diventare spugna per tutta la marea di vita che ti investe. Sei stordito, inevitabilmente. Mi sono presa tempo per capire, per cercare di dare un nome a questa sensazione, per cercare di mettere in fila le idee e tirarne fuori qualcosa di sensato. La verità è che probabilmente dovrò aspettare la fine di questo viaggio per fare un po’ d’ordine qui dentro.

In pochissimo tempo ho toccato mille mani, mille sguardi, mille odori, mille emozioni. Ho incontrato chi tutti i giorni vive Africa Mission, chi ha dedicato la sua vita al movimento, alla fede, al servizio per il prossimo. Ho avuto il privilegio di sedere difronte alle ragazze e ai missionari dei poveri e ho lasciato che mi commuovessero, ho pianto in camera, da sola, quando ne ho sentito il bisogno. Ho urlato, cantato e giocato con i bambini della Great Valley school e mi sono lasciata guidare nel loro mondo, ai piedi di una montagna di rifiuti, capanne e gente di strada e ho visto un angolino della loro quotidianità e mi ha commossa e spiazzata e riempita di amore poter essere lì con loro.

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Infine ho iniziato un percorso, al fianco dei ragazzi del Vieni e Vedi, e vi ho visto lo spirito, l’impegno e l’entusiasmo di chi dà tutto se stesso per qualcosa che ritiene importante, fronteggiando i propri limiti, le proprie debolezze e abbandonando le proprie convinzioni: non avrò dentro l’ordine che speravo, sì, serviranno tempo, energia e voglia di capire, ma non vedo l’ora di vivere tutto ciò che resta. ​

I primi giorni a Kampala

23 luglio 2017

Ciao a tutti!

Come dite? Non avete più avuto notizie di quei pazzi partiti per l’Uganda? Non sapete neppure se sono arrivati tutti vivi? Allora ve lo dirò io…

Scherzi a parte…

Siamo arrivati sani e salvi, il viaggio è stato lungo e sfiancante ma a parte un po’ di mal di schiena è andato bene; siamo arrivati dai nostri amici di Kampala a notte inoltrata quindi venerdì è stato dedicato a riprenderci e ricaricarci per il vero inizio dell’avventura con un breve giretto nella città e un po’ di relax.

La sera ci siamo fatti seri e ci hanno introdotto e preparato (quel po’ che è possibile) all’attività di sabato: servizio dai MOP (Missionary Of the Poor)

Non è facile parlare dell’esperienza di sabato mattina, non conosco una parola che possa descrivere anche lontanamente l’impatto che ha avuto quella realtà ma ci provo (e vi chiedo preventivamente scusa nel caso dovessi fallire). Ce ne avevano già parlato, sia a Piacenza che qui a Kampala, ma non era riusciti a rendere le opposte sensazioni di un pugno allo stomaco ed una carezza. I MOP sono frati che hanno scelto di donare la loro vita al povero, nello specifico nella  “casa del buon pastore” di Kiseny vivono bambine, ragazze e donne che altrimenti avrebbero affrontato una vita in strada perché orfane o a cause di disabilità mentali o fisiche.

Il pugno allo stomaco di cui parlavo prima è dovuto sia all’impatto visivo che alle effettive condizioni cui sono relegate dalla malattia alcune ragazze che, in parte, alle “attività” in cui siamo stati coinvolti; ma ho accennato anche alle carezze, queste sono le storie dei missionari e dei laici che li aiutano, i loro gesti e soprattutto la semplicità e serenità con cui si donano. Siamo stati portati la (un grande grazie a tutti quelli che ce lo hanno permesso) per provare anche noi a metterci al servizio, nel nostro piccolo, come fanno loro; ci siamo affiancati ai missionari nelle semplici, e non , azioni che compiono tutti i giorni per le ragazze che stanno li, dal lavare i panni e la struttura al prendersi cura delle donne e bambine fino ad aiutare a mangiare, imboccandole, le persone che non riuscivano a mangiare da sole.

È stato difficile. Anche se farlo insieme con i miei compagni di viaggio lo ha reso un po’ meno difficile. È stato semplice. Grazie ai missionarie alla velocità con cui soprattutto le bambine e ragazze si sono aperte verso di noi e, sembra strano scriverlo, ci hanno accolto.

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Questa esperienza ha occupato la nostra mattinata, mentre dopo essere tornati a casa ed aver pranzato, siamo andati a vedere il mercato del pesce di Kampala, in cui dalla pesca alla affumicatura degli “scarti”, come li definiremmo noi, si compie tutta la lavorazione e la vendita del pesce, affiancata dalla vendita di altri prodotti e dalla preparazione di ciò che serve per lavorare, per esempio la costruzione dal legno delle barche.

Anche questa visita è stata particolare oltre, che per il luogo – il lago Vittoria è molto bello – e le condizioni e gli odori, per l’effetto che noi musunghi (persone bianche) facciamo sulle persone che ci incontrano. Siamo una calamita per i bimbi ma gli adulti non sempre ci accolgono allo stesso modo; si passa dalla apertura di alcuni al “perché siete qui?” di altri, per fortuna pochi.

Veniamo a domenica, ovvero oggi. È una giornata a prima vista quasi vuota ma che in realtà è stata molto utile nella sua tranquillità per farci amalgamare come gruppo e per averci fatto vivere una bella giornata insieme. Al mattino messa nella comunità italiana di Kampala che ci ha accolto e incoraggiato per i giorni a venire. Mentre al pomeriggio siamo andati allo zoo che (anche se non ha riscosso grande successo tra noi) ci ha mostrato tanti animali mai visti prima, dandoci anche qualche spunto di riflessione.

Un’altra cosa importante sono gli incontri “serali” che facciamo tra di noi guidati da Giorgio e Cristina per tirare le somme della giornata e condividere ciò che abbiamo vissuto, sembra banale ma vi assicuro che è fondamentale.

Raffaello – Piacenza

Lo zaino di Cecilia

Questo è l’estratto dell’articolo.

12 luglio 2017

Mancano pochi giorni alla partenza per l’Uganda, quest’anno sarà il mio terzo viaggio in terra ugandese, ma il groviglio di emozioni si fa sentire anche questa volta.

Emozioni con tante sfumature, che non sono possibili da decifrare, ma questa volta c’è qualcosa di nuovo nella mia partenza, non sono più una studentessa o meglio lo sono in parte, ma ho un lavoro.

Il mio primo lavoro, particolare, difficile, faticoso, ma meraviglioso. Grazie al mio lavoro ogni giorno vivo, condivido, discuto, imparo, insegno, collaboro con ragazzi provenienti dal continente africano; ogni giorno le loro storie intrecciano la mia, ogni giorno hanno qualcosa di nuovo da insegnarmi, ogni giorno hanno qualcosa per la quale mi arrabbio, ma poi tutto si scioglie con una delle loro frasi “Capo non ti arrabbiare!”.

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Mentre sono qui a cercare di decifrare le mie emozioni penso a tutti loro, a quanto vorrebbero tornare nel loro paese ed invece non possono, bloccati dalla povertà, dalla guerra, da una burocrazia così intricata che anche io talvolta fatico a decifrare.

L’Africa è un continente enorme, tutti loro così diversi, eppure ci tengono sempre a dire “sono africano” e quindi in questo viaggio penso a tutti voi. Io posso prendere un comodo aereo, mettermi comoda, con la mia valigia dove posso mettere le mie cose più importanti e invece voi avete dovuto attraversare il deserto, il mare e ora le tante frontiere interne quotidiane…e allora c’è un emozione che si distingue tra tutti: la libertà.

In questi giorni apprezzo la libertà che ho di potermi muovere, di poter viaggiare, di poter andare e tornare in ogni caso e vorrei farvi vivere questa libertà, vorrei darvela con tutto il cuore. So che non sarà facile averla, ma voi ogni giorno non avete paura della libertà e avete un immenso coraggio, coraggio di vivere.

Quel coraggio che a me spesso manca, ma che voi riuscite a ridarmi. Quel coraggio che ogni volta ritrovo prima della partenza per l’Uganda.

Un mio grande amico ivoriano mi ha detto: “Rilassati, preparati per il viaggio, cerca la serenità del tuo cuore e cerca di conoscere tutto il mondo come piace tanto a te. Io ti aspetto a casa”.

La casa. La casa ormai sono le mie due gambe che si muovono tra le vie del mondo, ogni giorno con persone che vengono da ogni angolo della terra. Queste vie cosi piene di gente non fanno altro che arricchire la mia vita, e quella del mondo, perché finalmente abbiamo nuovi orizzonti, nuovi punti di vista, nuovi sguardi.

In questo viaggio porto tutti voi, viaggerò anche per voi. Al ritorno vi porterò un po’ di casa vostra, questa è una promessa.

Cecilia – Fabriano