Perfetto, so che ci sono bambini con delle difficoltà, so che ci sono gli ultimi tra gli ultimi, so che le condizioni economiche sono quelle che sono. Perfetto, sono pronta, andiamo dai mop.
E invece no, non si può essere preparati alle grida dei bambini, anche se è il loro modo di comunicare; non si può essere pronti alla vista di così tanti bambini con gravi disabilità tenuti in condizioni non proprio adatte alla loro situazione, anche se è sicuramente meglio di una strada.
Bene, ora sei qui, non puoi tirarti indietro, almeno renditi utile. Buttati sulla fisioterapia, è quello che avresti voluto fare nella vita.
La fisioterapista mi porta da una bambina, seduta un po’ in disparate rispetto agli altri bambini. La bambina non si muove, non cambia espressione, la sua testa è tenuta su da una coperta che le hanno messo sotto il collo.
Io mi siedo di fronte a lei, comincio a muoverle le dita delle mani, le articolazioni del polso, del gomito, a volte anche forzando un po’, e ogni tanto la guardo negli occhi per capire se prova dolore, ma la sua espressione rimane sempre la stessa. A quel punto mi si stringe il cuore, mi dico che è assurda una cosa del genere, che quello che sto facendo è inutile, che nessun bambino meriterebbe di stare in quelle condizioni, che io non le sono d’aiuto. Mi lascio andare, cominciano a scendere le lacrime, “tanto lei non mi vede”.
In quel momento di debolezza, passa Mimmo dietro di noi.
Lui forse nota in Maria (è questo il nome della bambina) qualcosa che io non vedo, essendo troppo impegnata a capire se soffrisse o meno. Forse nota anche le mie lacrime. Con la saggezza di chi ha vissuto la stessa situazione, mi dice che questi bambini sono tanto bisognosi d’affetto, e quando ci siamo noi ad occuparci di loro, per loro è come essere in paradiso. Il volto immobile di Maria si contrae in un sorriso non appena Mimmo finisce di pronunciare la parola “Paradiso”. E grazie anche al supporto morale di Giuliana, mi dedico a Maria con un cuore nuovo, tenendo stampato nella mente il suo sorriso involontario ma stupendo e perfetto in quel momento.

Per questo la mia Africa si chiama Maria. È grazie a lei che ho capito che l’Africa ti manda tanti messaggi, può farti sentire inutile e inadatta, piccola tra tanta sofferenza. Ma sta a noi capire l’importanza delle azioni che facciamo ogni giorno, non sottovalutare nemmeno il più semplice tra i gesti che compiamo nella giornata perché quel gesto che a noi può sembrare semplice per un’altra persona può significare miglioramento o peggioramento.
Quel giorno sono stata utile per Maria anche se all’inizio mi sono sentita “da buttare”, anche se sicuramente non le ho salvato la vita. Le sono stata d’aiuto anche quando doveva essere imboccata e lo stava facendo una ragazza più grande nonostante la disabilità che le impediva i movimenti.
Bisogna trovare un appiglio, una motivazione abbastanza forte da farti andare avanti.